UNO

Verso la metà di maggio l’aria era ormai diventata così tiepida, almeno nelle ore centrali della giornata, che già la mente vagava verso l’estate.

Leo preferiva  da sempre la primavera all’estate. Un po’ perché non sopportava il clima troppo caldo e afoso, un po’ perché i troppi turisti lo irritavano, ma soprattutto perché gli piaceva osservare il risveglio della natura e il contemporaneo riaffaccendarsi degli uomini.

In quell’angolo di mondo, nonostante l’irregolarità del clima comparsa negli ultimi decenni di questa era di modernità e progresso, l’inverno era ancora inverno e questo significava che era davvero la stagione del riposo e dell’attesa. Anche quell’anno la neve aveva raggiunto quasi il metro di altezza e i tetti di Sullago avevano perso la loro identità confondendosi in un tutt’uno lievemente smussato e irregolare. Per oltre due mesi ogni contatto con la vicina Barrea si era limitato a qualche conversazione telefonica o poco più. Ogni tanto qualcuno degli abitanti di Sullago, che d’inverno trovava più comodo trasferirsi a Barrea, arrivava su a piedi lungo la strada appena visibile tra la neve e veniva a controllare lo stato delle abitazioni dove d’estate avrebbe aperto il chiosco delle terrecotte o quello dei panini, faceva qualche lavoretto e poi tornava al paese più grande non senza aver bevuto prima un buon bicchiere di vin brulé da Peppe: sebbene d’inverno fosse ufficialmente chiusa, la sua osteria rimaneva pur sempre il ritrovo delle poche persone che ancora caparbiamente preferivano restare nel piccolo paese anche durante la brutta stagione.

Così arrivava il Toni, con le guance rosse per le quasi due ore di camminata nella neve, da solo o con Giovanni, e insieme controllavano le porte e le finestre della piccola casa a due piani accanto alla chiesa, riempita d’estate dai colori vivaci delle T-shirt e dei vestiti di cotone stampato che la moglie di Toni vendeva ai turisti poco esigenti, e le travi, che reggessero bene il peso della neve. Poi sprangavano di nuovo il tutto e via da Peppe con Rico, la Viola, e se era in buona, il vecchio Momo; Riccardo c’era sempre, praticamente quando non era con Leo era all’osteria, ma che ci fosse o meno, nessuno ci faceva caso.

E allora discutevano delle ultime novità, e anche delle penultime, naturalmente; dei pettegolezzi di paese che riempivano la vita più dei grandi eventi della situazione internazionale, la quale comunque qualche commento lo strappava sempre. Si confondevano insieme Bush e Gorby; il matrimonio di Eva, la figlia del barbiere, che si sarebbe trasferita a Teramo e la nuova asfaltatura che avrebbe reso più praticabile la strada fino a Sullago; l’estate, che dopo un inverno così rigido, sarebbe senz’altro stata lunga e molto calda e le nuove tasse; la morte di qualcuno, che qualcuno che muore c’è sempre, e tutte le altre chiacchiere che rendono piacevole la compagnia degli amici. Infine l’orologio diceva che  bisognava rimettersi in cammino per arrivare a Barrea prima che facesse buio: non  volevano certo incontrare i lupi, anche se in realtà i lupi da oltre 10 anni non li vedeva più nessuno. A meno che non si parlasse di quelli del recinto di Civitella Alfedena, ormai quasi domestici, eppure difficili da vedere anche loro..

Nessuno tranne Leo, naturalmente. Da lui ogni tanto si facevano vedere, giravano silenziosi attorno alla casa, leggeri e furtivi. Forse nemmeno loro sapevano il perché ma dopo tanti anni ancora la memoria razziale imponeva un ricordo, una sensazione, una spinta interiore che li portava fino a lui. Ormai Leo non ne conosceva più nessuno, erano generazioni nuove che non avevano mai corso con lui nelle notti di luna piena: Codamozza, Rabarbaro, Brezza, Neronotte erano ormai morti da decenni e Leo aveva da tempo perso il ricordo delle cacce in loro compagnia. Eppure qualcosa univa ancora i loro discendenti  a quell’uomo; sentivano la somiglianza, sentivano che anch’egli come i loro padri aveva deciso di andarsene, di morire. Forse venivano a dargli un ultimo saluto.

Il sole del primo pomeriggio di quel sabato di maggio scacciò dalla mente di Leo gli ultimi ricordi dell’ inverno ormai passato. La pelle gioiva del tepore della primavera, gli occhi chiusi mandavano al cervello solo segnali confusi di macchie rosse e bluastre, con aloni gialli, impossibili da fermare, ma Leo immaginava il cielo spatolato d’ azzurro sopra di lui, le nuvole sfrangiate che passeggiavano decise sulle cime degli alberi e il vento leggero che increspava la superficie del lago.

Sedersi sulla panchina vicino al pontile dove fra poche settimane sarebbero stati ormeggiati i pedalò colorati del camping, era per Leo una specie di rito propiziatorio che si ripeteva ormai da anni al comparire dei primi caldi. D’accordo che aveva infine deciso di morire e di lasciarsi quindi  invecchiare col ritmo naturale di Sullago e dei suoi abitanti, ma ciò non voleva dire che non fosse comunque contento di aver superato un altro inverno e che non potesse gioire pensando di avere di fronte a se un’altra estate piena di vita e di scoperte.

Perchè quello era per lui l’estate: stagione di vita e di scoperte.

Tutto iniziava così, con quelle lunghe ore sulla panchina  a godere del nuovo sole e ad assaporare gli indizi della stagione che andava ad incominciare: il caldo, la brezza lieve sul lago, l’odore dell’erba nuova, i rumori del risveglio del paese: martelli che battevano, carriole che cigolavano, trapani che fischiavano e su questo sottofondo, le voci. Le voci che conosceva da anni degli abitanti fissi di Sullago e quelle dei pendolari che tornavano solo d’estate per riaprire l’edicola, il chiosco delle ceramiche, il noleggio delle bici e dei pedalò e infine le voci più interessanti, quelle sconosciute.

Alcune di queste voci avrebbe imparato a conoscerle e le avrebbe risentite per tutta l’estate. Erano quelle dei lavoranti stagionali, studenti soprattutto, che cercavano di unire l’utile del guadagno al dilettevole di un soggiorno, se non proprio di una vacanza, nel Parco, e che difficilmente avrebbe risentito l’anno seguente perchè la vita li avrebbe portati da altre parti, dove teneva in serbo per loro altre storie e altri incontri.

Nella mente le sensazioni si confondevano. Le nuove storie si accavallavano alle vecchie. Un grido, una parola, un’intonazione riportavano alla mente secoli di storia e di vita. Tornavano donne dimenticate da generazioni e ricordi di luoghi e persone che ormai erano polvere. Visi dolci di bambini e ragazze, visi trasformati dall’odio e dall’invidia per la sua eterna giovinezza. Paesi dai quali era stato costretto a fuggire per evitare accuse di stregoneria e di patti col demonio e visi di donne un tempo sinceramente amate ormai curve per gli anni e le fatiche che non sapevano più se continuare ad amarlo perchè ancora le accudiva o odiarlo perchè ormai sembrava un loro nipote e non il compagno con cui avevano diviso tutta la vita.

I vecchi dolori si stemperavano e si confondevano al tepore della primavera e le vecchie cicatrici riemergevano con pruriti salutari. Non voleva che l’oblio scendesse a nascondere ogni cosa ed allo stesso tempo non voleva neppure che il ricordo fosse troppo vivo. A questo serviva il risveglio primaverile, a mantenere viva la memoria, perché sforzarsi di dimenticare è stupido, ed allo stesso tempo a lenirne i dolori: ché la memoria non funga da ostacolo per nuove storie ma da base per nuove partenze.

Anche se ormai Leo aveva deciso che la sua strada era giunta alla fine e che per lui non ci sarebbero state nuove partenze.

Le voci che più affascinavano Leo erano quelle dei turisti. Ancora non voleva aprire gli occhi: sarebbe stato troppo facile! Cercava di identificarle, di collegare loro un volto o almeno un carattere: erano mondi da scoprire.

Con le palpebre abbassate, scaldate dal sole, cercava di immaginare l’aspetto di quei primi visitatori: coppiette di innamorati in fuga nel week-end, anziane signore con passo macilento, famigliole in cerca di un posto adatto alle ferie estive. E ogni voce era un pianeta, ogni intonazione un mondo, e lui era l’astronave che li sfiorava, una sorta di Enterprise dell’animo, in una missione di conoscenza senza fine.

Alcuni di quei mondi si sarebbero fermati solo per qualche giorno, altri invece per gran parte dell’estate, nelle camere ammobiliate della signora Gina, nei bungalows in muratura o nelle proprie roulottes e tende piazzate nel camping dove anche Leo avrebbe lavorato.  Allora le voci si sarebbero precisate, i volti avrebbero preso consistenza e le storie, le storie sarebbero state raccontate: storie semplici e complesse, commedie e atti unici, drammi, tragedie e fiabe a lieto fine. Sullago diventava un teatro e Leo si preoccupava di essere pronto in prima fila a godere di ogni particolare della rappresentazione. A volte penetrava addirittura dietro le quinte per meglio capire, per conoscere ancora di più.

Tutto questo avrebbe portato a Leo l’estate che andava iniziando. E se anche la scelta era ormai fatta, non valeva la pena affrettarsi; sotto il sole di maggio c’era ancora posto per una stagione di storie da conoscere, di eventi da ricordare o cancellare, di personaggi da amare o odiare, di sentimenti e scelte da rispettare o disprezzare. Di  vita da vivere.

Sebbene avesse deciso di morire, quel pomeriggio Leo era felice di vivere.

Il brusio dei rumori e delle voci che si avvicinava e  allontanava più o meno regolarmente portato dal vento, cullava Leo, sospendendolo in una sorta di dormiveglia semicoscente dove tutto era ovattato e morbido. Un attrezzo che cadeva, una persiana che sbatteva, una voce più forte lo riportavano nel mondo reale, socchiudeva gli occhi, e la mente si riempiva del placido paesaggio così ben conosciuto ma ancora così appagante di Sullago.

Sedeva con le spalle rivolte alle prime abitazioni del paese, se si fosse girato avrebbe visto il piccolo gruppo di case ammucchiate a sorreggersi l’un l’altra, apparentemente senza spazio per le vie e i cortili che, invece, seppur stretti, si incuneavano e rigiravano fra le abitazioni portando, con salite e brevi scalinate irregolari, fino allo spiazzo in cima alla collina dove si apriva la piazzetta con i gelsi, la fontanella e l’austera facciata della chiesa di S. Rocco. Sopra i tetti, poche antenne televisive, molti comignoli e come faro oltre le onde, la mole svettante del campanile, ancora imponente nonostante il crollo di una parte laterale del tetto a piramide e la mancanza, fin dall’ultima guerra, delle campane.

A Sullago la messa veniva officiata solo in occasioni particolari: festa patronale e qualche matrimonio di gente discreta ma importante al punto da far spostare il parroco da Barrea. Nonostante ciò, la chiesa veniva tenuta in ordine e ben pulita dalle donne del paese che si organizzavano a turni e qualche volta costringevano gli uomini a lavori più o meno consistenti di muratura e falegnameria. D’estate non mancavano mai fiori sull’altare e davanti al quadro raffigurante San Rocco e il piccolo cane col pane in bocca accucciato ai suoi piedi.

In agosto c’era la festa del patrono, San Rocco appunto, spostata in quel mese per esigenze soprattutto turistiche ed allora da Barrea arrivava Don Luigi coi chierichetti, le stole, qualche drappo nuovo e il tabernacolo; per un giorno la chiesa riacquistava un’aria viva e festosa e le luci sulla facciata e sul campanile rimanevano come collane e gioielli per una intera settimana. Eppure una sua dignità la manteneva sempre, anche quando, disadorna e fredda, accoglieva i turisti che nelle poche giornate di brutto tempo, non potendo avventurarsi nei boschi e nei sentieri del Parco nè tanto meno nelle acque del lago, coglievano l’occasione per visitare il piccolo paese.

Il lato est della piazzetta, di fianco alla chiesa, era costeggiato da un muretto di pietre cui dava nuova vita un cordolo di cemento e mattoni che fungeva da balaustra. Da lì lo sguardo abbracciava la parte bassa di Sullago, il bosco rado dove c’era il camping, tutto il piccolo lago che portava lo stesso nome del paese e poi di nuovo boschi e pendii fino alla vallata sottostante dominata dall’azzurro profondo della parte meridionale del più grande lago di Barrea con le case biancogrigiastre del paese, rese più belle e pulite dalla distanza.

Chi vedeva il panorama nelle giornate chiare e serene, aveva davvero la sensazione di aver scoperto un angolo di paradiso, ma la maggior parte della gente veniva su solo nelle giornate di nuvolo o foschia e degnava il tutto di non più di uno sguardo intuendone la possibile bellezza in altri momenti e ripromettendosi di ritornare, ma poi, nelle belle giornate, il poco tempo a disposizione per le ferie veniva bruciato in mille altre attività e la piazzetta rimaneva rifugio dei pochi fortunati con un po’ più di cervello dietro agli occhi e un po’ meno fretta nel cuore

Davanti a sè, Leo vedeva il  pontile di cemento del campeggio, più brutto e anonimo del vecchio pontile di legno ma costruito in posizione migliore per l’ormeggio dei pedalò e delle canoe e soprattutto più robusto e con minor necessità di manutenzione. D’estate si riempiva di ragazzini perchè unico punto lungo la riva che potesse fungere da trampolino e nonostante i cartelli di divieto e le urla dei sorveglianti, e dello stesso Leo, era sempre luogo d’incontro per tutti gli aspiranti acrobati in erba del camping. Per fortuna l’acqua era abbastanza alta perchè tuffandosi non si facessero male e il terreno degradava lentamente senza far temere che qualcuno poco esperto potesse trovarsi ad annaspare senza che i piedi facessero presa sul fondo di ghiaia.

Dalla macchia di ontani e salici che si spingevano fino a ridosso dell’acqua continuandosi poi nel piccolo canneto che si inoltrava nel lago stesso, giungeva un cinguettio così vario e vivace che a tratti copriva tutti gli altri suoni. Erano passeri,  fringuelli, ghiandaie e picchi verdi e forse anche qualche esemplare del più raro merlo acquaiolo, contenti di stare al mondo ed ormai abituati ai rumori del paese e alla presenza dell’uomo.

Leo richiudeva gli occhi, abbandonandosi al brusio continuo di animali, persone e cose, poi li riapriva appena per guardare, non visto, Giovanni che si impegnava a ridipingere i pedalò. Ogni anno cambiava tonalità senza però grattare via la vernice vecchia. Ormai erano quasi raddoppiati di volume a causa di strati su strati di smalto lucido.

Erano pattini a remi e non veri pedalò anche se la gente chiamava così quelle vecchie imbarcazioni di legno confondendole coi nuovi modelli di resina e plastica che permettevano di andare a spasso per il lago senza lo sforzo di remare, attività snobbata in parte per la sua scarsa signorilità in parte per l’incapacità manuale degli improvvisati marinai. Col pedalò bastava saper stare seduti in poltrona e sgambettare un po’ e anche il più imbranato cittadino partiva per le Americhe. Leo li aveva visti giù, al lago di Barrea; erano pratici e leggeri, sicuramente comodi e Giovanni avrebbe dovuto decidersi a cambiare le sue zattere antidiluviane, anche se lui era affezionato alla visione di quei legni incrostati e colorati e sperava che resistessero ancora qualche altro anno.

Riccardo aiutava col pennello, o almeno non dava troppo fastidio e non faceva eccessivi danni, così Giovanni gli permetteva di lavorare con lui e sicuramente alla fine lo avrebbe anche pagato. Tutti nel paese pagavano Riccardo. Era un modo per aiutarlo senza darlo a vedere contribuendo al poco reddito dei vecchi genitori coi quali viveva. In alcuni lavori era davvero bravo e d’estate al camping era diventato ormai indispensabile ma più spesso il lavoro richiesto era inutile, solo un pretesto per dargli qualche soldo senza offenderlo. Perchè Riccardo era Down, ma non era stupido. Era orgoglioso e non accettava la carità di nessuno.

Il cinguettio riprese vivace e per un attimo ogni molecola d’aria fu impegnata a trasportare musica tutt’intorno. Poi una pausa, uno stormire improvviso di fronde e il battito di decine e decine di piccole ali: qualcuno si stava avvicinando lungo la stradina che costeggiava il lago.

Leo volse appena gli occhi a cogliere l’immagine di un gruppo di ragazzi che ciarlando e gesticolando, con la pelle ancora bianco-inverno, sfoggiavano la prima tenuta in costume da bagno della stagione. Uno di loro, coi capelli lunghi da un lato e quasi rasati a zero dall’altro, « bel ragazzo se non si conciasse a quel modo » avrebbe detto la Gina, portava in spalla una radio. Una di quelle grosse  radiomangianastri stereo da tavolo con ai lati le  casse che si possono staccare. Forse era proprio quella che aveva spaventato gli uccelli ancor più delle voci umane. Per il momento Leo sentiva solo il “tum tum, tum” dei bassi, ma la musica prendeva corpo e identità mano a mano che i ragazzi si avvicinavano. Ora poteva distinguerli meglio, tre ragazzi e due ragazze in età compresa fra l’innocenza spavalda e l’accettazione rassegnata. Venivano diritti verso di lui, verso quell’unica panchina su cui Leo salutava la primavera e si preparava all’estate. Dalle espressioni dei volti Leo intuì che erano decisi a rovinare il suo rito, a interrompere la sua quieta meditazione, forse non tanto perchè  stanchi e desiderosi di sedersi quanto più probabilmente soltanto per fare qualcosa, per dimostrare qualcos’altro; per fare un passo avanti in quel mondo che li aspettava, che sembrava essere lì  apposta per loro, e che ancora credevano di poter dominare e piegare ai loro voleri.

In fondo un vecchio semiaccasciato su di una panchina era una buona cavia per provare la loro capacità di conquista.

Il gruppetto continuò ad avanzare verso la panchina. Erano ormai a pochi metri, quando infine si fermarono, appoggiando in terra la radio, e facendo capannello attorno ad essa.

« Consiglio di guerra » pensò Leo esaminando più attentamente i singoli ragazzi ora che erano così vicini. Anche se il sole li aveva invogliati a mettersi in costume tutti portavano ai piedi scarpe da tennis; una delle ragazze, nonostante il caldo, le aveva addirittura da basket, alte fin sopra la caviglia. « Miss Piedidolci. » la catalogò subito  Leo. Tutti portavano occhiali da sole con le lenti scure e orologino di plastica colorata al polso.

Scarpe da tennis, occhiali neri, Swatch. Anche se avevano lasciato gli abiti in auto o sotto qualche albero lungo la riva del lago era facile intuire che una volta vestiti sarebbero apparsi  molto simili fra loro, quasi intercambiabili. La perfetta divisa del trasgressivo codificato. Oramai davvero anche la rivoluzione è ben delimitata e legiferata e devi solo scegliere il tuo modo di rappresentarla: dark, punk, grunge, skin o quant’altro ti venga in mente. Devi solo riconoscerti in un gruppo, in un clan: non ci si ribella da soli e non ci si ribella senza le giuste firme. E il povero Ernesto Che guarda sconsolato da mille spillette e adesivi la forza dell’adolescenza ormai incanalata nel businnes della moda e della musica, dei cibi precotti e delle bibite gassate: tu trasgredisci e rovesci il mondo e buona parte di quel modo vive su di te e sui tuoi atteggiamenti. Quasi gli dispiacerà quando indosserai giacca e cravatta e andrai a piangere alle varie porte per ottenere un bel posto statale, sicuro e tranquillino.

L’improvvisato comitato non trovava evidentemente un accordo comune sulla tecnica da adottare per l’assalto alla panchina. Bruce Springsteen dalla radio stava ripetendo da vari minuti, con la sua voce roca, che lui era più duro degli altri. Gli angoli della bocca di Leo si sollevarono leggermente.

« Purtroppo questi virgulti non sono in grado di apprezzare la sottile ironia della situazione: ascoltare il Boss è di gran moda ma sforzarsi di capire quello che dice è tutt’altra faccenda. Non è richiesto dal ruolo. »

« Forza, coraggio. Vediamo come giocate a scacciapanchina. Io ci gioco da millenni, conosco tutte le tecniche, tutti i tranelli, tutte le variazioni. Fatemi vedere qualcosa di nuovo, qualcosa di divertente. Oppure toglietevi dalle palle e lasciatemi in pace. Io giocavo a scacciapanchina quando i vostri genitori non erano ancora nati, e come dice Enrico Ruggeri:

” Sono stato punk prima di te

             sono stato più cattivo io

             suonavo l’heavy metal quando tu

             eri ancora nell’asilo”.

 

Leo allungò pigramente le gambe nel sole sistemandosi meglio sul sedile di sottili listarelle di legno ed allargando le braccia sullo schienale. Tutto il suo corpo diceva “qui ci sono io, questa panchina è comoda ed è tutta mia”. I ragazzi infine si mossero. Finita la fase dello studio tattico, cominciava la battaglia.

Ora Bruce, affermando di volere tutto quello che il paradiso può concedere, salì in spalla al ragazzo più robusto e da lì continuò a raccontare le sue storie. Le due ragazze erano veramente carine, entrambe more e snelle, coi tratti del volto dolci ma già decisi; forse erano sorelle. Sarebbero sicuramente diventate splendide donne. I ragazzi, asciutti e ben proporzionati rivelavano quanto la natura dia di capitale all’inizio del cammino. Mantenerlo poi  nel corso degli anni è un altro paio di maniche..

« Ragazzi che ne dite di sederci TUTTI a riposare un poco. »

Aveva parlato il più alto della compagnia. Evidentemente era anche il leader, almeno in quella occasione.

« D’accordo, ho i piedi fusi. » lo assecondò la ragazza che teneva per mano.

« Per me va bene. »

« O-kappa. »  fecero eco il portatore di radio e il secondo gregario.

L’altra ragazza, più piccola e minuta, non disse niente. Guardava di sottecchi verso Leo, curiosa e quasi birichina nella sua posa.

« Ah, miss Piedidolci fa la finta timida. » pensò Leo.

Erano ormai di fronte alla panchina.

« Va bene qui? » disse ancora il leader, sedendosi di fianco a Leo e costringendolo a togliere il braccio dallo schienale.

Subito gli altri si raccolsero attorno. Bruce finì di nuovo in terra continuando imperterrito a cantare di pezzi di ricambio e cuori spezzati che fanno girare il mondo. Pur essendoci posto a sedere per un’altra persona, la ragazza del capo salì direttamente sulle sue ginocchia, si accomodò per bene spianando il giovane sedere, già con qualche smagliatura, “cibi moderni” pensò Leo, e diede subito inizio alle prime mosse della battaglia cingendo il collo del ragazzo e baciandolo in bocca.

« Come sempre in tutte le guerre il comandante in capo sceglie per sè la posizione migliore e il compito più gradevole. » Leo non rimase sorpreso e quindi nemmeno divertito dalla tecnica intrapresa. Di conseguenza decise di non andarsene. La truppa si dispose tutt’intorno aspettando che l’eroe conquistasse l’obbiettivo programmato. La pattuglia d’assalto metteva un grande impegno nello svolgere il proprio compito. Tutto fatto per essere ben visto. Le bocche semiaperte, le lingue che entravano e uscivano, i contorcimenti esagerati.

« Così adesso il vecchietto, schifato e sconvolto da queste inconcepibili sconcerie moderne, da queste nuove generazioni senza Dio e senza Morale, dovrebbe, per giusta regola, alzarsi ed andarsene.

Obbiettivo raggiunto. Posizione conquistata.

Attenti al nemico ragazzi

Ogni azione provoca una reazione uguale e contraria. Bisogna sempre essere pronti a controbatterla, mai pensare di avere la vittoria in pugno, mai pensare solo a se stessi.

In battaglia la vittoria è data tanto dalla propria azione quanto  dal saper prevenire e contrastare la reazione del nemico.»

Il Generale stava proseguendo nella sua tattica, aggiungeva struscii a struscii, slinguamenti a slinguamenti, risucchi a risucchi. Lei partecipava coscienziosa e scrupolosa, precisa ed accurata. « Agli ordini signor comandante! »  Una mano del ragazzo racchiuse a coppa il giovane seno e la mano di lei, veloce e decisa, la staccò e la allontanò.

« Generale, devi sapere cosa chiedere ai tuoi soldati, devi conoscere il limite della truppa. Fino allo spasimo ma non oltre altrimenti ti esponi all’insubordinazione e alla diserzione. »

Nessuno più ascoltava il Boss. La battaglia era al culmine. Le lingue esageratamente rumorose si impegnavano allo spasimo. Il ragazzo dava piccoli morsi alle labbra della partner stirandole per poi lasciarle andare con piccoli schiocchi umidi.

« Ok ragazzi, facciamola finita altrimenti i gemiti di passione diverranno ansiti di fatica »

Leo si spostò sulla panchina destando l’interesse dei tre spettatori già pronti a posare le chiappe sudaticce. Si mosse di nuovo sollevando il tronco dallo schienale ( « Vittoria! » ) e provocando l’ulteriore avvicinamento dei ragazzi. Si succhiò due o tre volte le guance cercando di accumulare più saliva possibile, poi, girandosi verso i due guerrieri impegnati nella pantomima infoiata e amorale, si tolse di bocca la dentiera ben attento a che lunghi fili di saliva si allungassero, viscidi, trasparenti e luccicanti nella luce dorata del pomeriggio, dalle sue labbra fino alla protesi. Portò la dentiera a pochi centimetri dal volto del ragazzo, ancora impegnato nei mordicchiamenti.

« Serve aiuto? » chiese guardandolo negli occhi.

Come tante molle ben caricate, tutti i ragazzi fecero un salto indietro, compresi i due seduti ed avvinghiati tra loro, il che dimostrò che in fondo erano ben addestrati e con i muscoli pronti. Sui volti comparvero espressioni diverse ma tutte comprese fra il ribrezzo e il disgusto. Il portatore di radio, più coraggioso degli altri, si volse verso Leo che imperterrito stava ripulendo meticolosamente e senza fretta la protesi scrollando i fili di saliva dalle dita con gesti lenti e flemmatici e si permise un:

« Vaffanculo, vecchio stronzo! »

Leo alzò leggermente la protesi  a mo’ di calice in un brindisi appena accennato e se la reinfilò in bocca. Il ragazzo deglutì vistosamente obbligando lo stomaco   a restare al suo posto e si voltò rapidamente allontanandosi con gli altri.

Un rumore improvviso, un suono argenteo e cristallino colse Leo alla sprovvista facendogli volgere la testa e distogliere la vista per un attimo, un singolo attimo, dai ragazzi in fuga.

E cambiò per sempre la sua vita, la sua porzione finale di vita e tutte le idee, i progetti e le azioni che aveva avuto e cercato di realizzare nei millenni precedenti.

La seconda ragazza, miss Piedidolci, quella con le scarpe da basket alte fin oltre la caviglia, era piegata in due, con le mani a coprirsi la bocca e le lacrime agli occhi: stava ridendo. La risata aperta e incontrollata di chi ancora non accetta compromessi, di chi ancora non misura, col centimetro e col grammo, l’azione e la reazione. L’ilarità impulsiva e spontanea non ancora ridotta a sorriso educato di convenienza.

Accorgendosi che Leo la stava osservando si fermò un attimo. I loro sguardi si incrociarono e rimasero incollati per un tempo che era un niente, ma in quel niente, segnalato da un senso di vertigine nella mente di lei, una valanga, una massa incalcolabile di dati e informazioni, di sensazioni ed intuizioni passò fra loro e li cambiò per sempre.

« Vale, ti muovi? » urlò irritato il generale sconfitto dalla sicurezza della sua posizione, ormai distante dal campo di battaglia.

Lei guardò nuovamente verso Leo, turbata e senza più tanta voglia di ridere. « Cosa è successo? » Di nuovo la vertigine la colse, più profonda ma anche più chiara. Se fosse andata a fondo, se si fosse lasciata trascinare, probabilmente avrebbe anche capito. Lo sapeva. Lo sentiva. Ma voleva farlo?

« Allora, Valentina? » ripetè il generale.

La ragazza strizzò più volte gli occhi e volse poi il capo verso gli amici che l’aspettavano impazienti.

Ancora confusa e scossa si avviò lentamente verso di loro.